Links condivisione social

La cura dell’uomo

Immagine
copertina
Presentazione del progetto espositivo

É con grande piacere che l’Associazione Culturale Convivio, unitamente alla Fondazione Museo Diocesano di Pavia, presenta il progetto espositivo "La cura dell’uomo”, che sarà visitabile dal 10 maggio al 25 maggio negli orari di apertura del Museo.

Si tratta, più nello specifico, di una mostra, curata dal Professor Filippo Moretti e dall’Ammiraglio Giosuè Allegrini, che è il frutto di una serrata cooperazione di diversi enti del nostro territorio, segnatamente Convivio, l’Università di Pavia, l’Edisu, in particolare il Collegio Fratelli Cairoli, il Policlinico San Matteo, Fabbrica Poggi, la Diocesi di Pavia, il Comune di Pavia, la Provincia di Pavia, realizzata con il patrocinio oneroso della Fondazione Monte di Lombardia, della Fondazione della Comunità, del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pavia, dell’Edisu, di Poste Italiane e della Fondazione Centropadana.

La cura dell’uomo è un racconto per immagini volto a comprendere a fondo le diverse forme della cura necessarie per la rigenerazione dell’umano.

Attraverso una quarantina di opere d'arte di grande rilievo (all'interno del percorso espositivo saranno presenti, tra gli altri, dei quadri di Banksy, di Domenico Paladino, Giorgio de Chirico, di Gino de Dominicis) verranno presentati in cinque tappe i differenti modi in cui, concretamente, si articola la cura dell’essere umano.

La cura del corpo
Mino Ceretti, Corpo anatomia, 1959, olio su tela, 90x80
Immagine
corpo anatomia 1

Mino Ceretti, nato a Milano nel 1930, ha frequentato l’Accademia delle Belle Arti di Brera, dove si è diplomato nel 1955.

Il periodo più significativo del suo percorso artistico è senza alcun dubbio da ricondurre all’esperienza del realismo esistenziale, che ha avuto modo di vivere unitamente ad altri pittori, quali Bepi Romagnoni, Tino Vaglieri e Giuseppe Guerreschi.

La pittura di Ceretti, come si può evincere dal presente quadro, è caratterizzata da oggetti e da figure che sembrano esplodere, oltreché da colori intensi, a volte perfino drammatici.

L’opera esposta è riconducibile ad una memoria informale, con chiaro intento di passare dalla rappresentazione dell’esterno all’esplorazione dell’interno della figura femminile rappresentata.

E’ stato scelto proprio questo pezzo come apertura della presente mostra perché, osservandolo attentamente, è possibile derivare da esso una suggestione, che guiderà l’intera prima parte di questo progetto espositivo: nel quadro viene portata in scena un’umanità in fondo ferità, un’umanità squartata, che attende, per potere tornare a vivere, di essere ri-cucita, di venire insomma curata.

Quel bagliore luminoso, sullo sfondo, che contrasta i toni cupi che caratterizzano il primo piano, fa presagire che, nonostante tutto, si può forse ancora sperare: sperare che dal fondo un altro, approssimandosi a noi, possa arrivare a suturare le nostre ferite.

E questo è quello che precisamente accade ogniqualvolta il nostro corpo ferito si trova tra le ‘braccia’ della medicina, che, operando con l’intento di curarci, anche se non sempre riesce a guarirci, produce sicuramente, in ogni caso, un’azione luminosa di ricostituzione vitale.

La prima forma della cura dell’uomo è quindi, in definitiva, la cura del corpo ferito, che è resa possibile da quanti, anche grazie all’ausilio delle nuove tecnologie, si prodigano ogni giorno in questa direzione.

Autori vari, Di testa mia. L’arte come terapia, polimateriale su stampa 3D, …
Immagine
di testa mia

Ma che cosa significa davvero curare il corpo ferito?

Si tratta, da parte del medico, di intervenire solamente sulle ferite della carne oppure, nella sua azione, questi è chiamato ad un qualche cosa di più?

Le quattordici ‘teste’ che avete dinanzi sono lo stupefacente risultato di un progetto lanciato dal Policlinico San Matteo di Pavia, sotto il coordinamento del Prof. Andrea Pietrabissa, membro del comitato scientifico che ha progettato e realizzato questa mostra, intitolato Di testa mia. L’arte come terapia.

Esso intende proprio provare a rispondere alla nostra domanda.

Il laboratorio Clinico di Stampa 3D dell’Università di Pavia presso il Policlinico San Matteo ha realizzato delle Teste 3D in resina polimerica, che sono state successivamente trasformate in pezzi d’arte dai giovani pazienti dell’Oncoematologia Pediatrica del Policlinico.

Di testa mia vuole proporre un’esperienza creativa a chi sta attraversando un momento particolarmente difficile della propria vita, offrendo uno strumento di condivisione delle proprie emozioni durante il ricovero ospedaliero.

I giovani pazienti vivono l’esperienza artistica come parte del percorso di cura: ai ragazzi viene chiesto di cercare di esprimere nelle teste dipinte il loro vissuto di malattia. Ad ogni realizzazione è infine associato un titolo che rafforzi l’intento comunicativo e il sentimento che l’ha generata.
Le produzioni sono state realizzate con la guida degli educatori che abitualmente prestano la loro opera presso l’Oncoematologia pediatrica.

Questo innovativo progetto sottolinea la necessità di valorizzare la centralità e l’unicità dell’individuo, anche quando l’invasività delle cure ne limita il grado di autonomia, arrivando a indebolire la stessa identità della persona.

I giovani pazienti, attraverso le loro creazioni, riaffermano con la forza dei colori la propria autodeterminazione, la volontà di tornare liberi dalla malattia e la prospettiva di poter ricominciare a vivere gli affetti e le relazioni con più intensità di prima.

Quello che di interessante deriva dunque da questo progetto è la convinzione che la cura del corpo passa certamente da un intervento sulla corporeità malata, ma anche, e forse sopratutto, nella direzione della cura integrale del paziente, dal racconto e dalla condivisione da parte dello stesso della propria malattia, che consente quella presa di consapevolezza della propria fragilità e quell’accettazione della propria situazione di sofferenza che rendono possibile, già semplicemente con questo atto, un alleviamento del dolore.

L’ultima testa esposta, la quindicesima, è opera dell’artista pavese Matteo Domenico Borioli.

Domenico Paladino, I bambini meravigliosi, 2025, matite colorate su cartoncino, 29,7 x 42 cm
Immagine
i bambini meravigliosi

Domenico Paladino è probabilmente, tra i maggiori pittori italiani viventi, quello internazionalmente più noto e più appezzato.

Esponente di spicco della transavanguardia italiana, il movimento artistico teorizzato da Achille Bonitoliva nel 1980 che individua un ritorno alla pittura dopo il proliferare delle diverse correnti concettuali invalse negli anni ’70 del secolo scorso, le sue opere sono esposte in forma permanente in alcuni dei più importanti musei internazionali, incluso il Metropolitan Museum of Art di New York.

L’opera che avete dinanzi a voi, intitolata I bambini meravigliosi, è stata realizzata dal Maestro ad integrazione, a sostegno e a rilancio del progetto Di testa mia e viene esposta al pubblico per la prima volta all’interno di questo allestimento.

Paladino, non rinunciando al gesto artistico compiuto dai giovani pazienti del Policlinico, dà anch’egli forma alla ‘sua’ testa e, su di essa, con una serie di matite colorate, racconta la vitalità che si ingenera nella vita ferita ogni volta che essa viene curata.

La cura del corpo, questo sembra suggerirci con il suo tratto inconfondibile l’artista, è, in definitiva, arte della vita, forse la più delicata e al contempo la più essenziale delle arti della cura di l’uomo dispone.

La cura dell’interiorità
Alain Arias-Misson, Teledream (alias Murder), 1980, stampa fotografica e combustione su carta scritta a china sotto plexiglass (installazione di 12 esemplari monotipo), 36 x 28,5 x 3,5 cm (singolo esemplare)
Immagine
teledream

Alain Arias-Misson è nato a Bruxelles nel 1936, attualmente vive e lavora sia Parigi che a Venezia.

E’ tra i fondatori, all'inizio degli anni ’60 del secolo scorso, della Visual poetry: nel 1967 pubblica i primi poemi visuali sull'antologia di poesia concreta curata da Emmett Williams e nel 1974 redige il suo primo romanzo ricorrendo a una nuova forma letteraria da lui inventata, la superfiction, attraverso cui il racconto viene narrato con l'ausilio di elementi fotografici ricavati da quotidiani americani.

Direttore di diverse riviste, fra cui Lotta poetica, Arias-Misson è quindi, oltreché un raffinato artista, un innovativo romanziere.

Le dodici opere che trovate dinanzi a voi sono la martellante, quasi ossessiva, riproposizione del medesimo soggetto, il volto morto di una donna assassinata, dall’artista catturato con una fotografia mentre veniva fatto passare da un notiziario televisivo. Questo gesto obbliga lo spettatore a concentrare l’attenzione sul peggiore e sul più violento dei gesti di cui può rendersi capace l’essere umano, l’omicidio.

In ciascun pezzo a variare sono unicamente la dimensione e la posizione della bruciatura sapientemente realizzata da Arias-Misson sui suoi scatti quasi a rappresentare plasticamente la forza distruttiva di quel proiettile che tolse la vita alla giovane donna protagonista di questo macabro racconto.

Nel cuore di ogni bruciatura, che spezza il volto della vittima, si legge Murder: questo è quello che accade se, dimentichi di quella cura del sé o della propria interiorità, al posto di educarci alla relazionalità, all’amicizia, all’amore, alla compassione, alla solidarietà e a tutte quelle virtù che consentono all’essere umano di ben vivere, lasciamo che trionfino invece in noi gli istinti più brutali, animaleschi e auto-conservativi che pervadono istintivamente il nostro spirito, abbandonandoci così alla violenza, alla legge della forza, alla sopraffazione e, infine, inevitabilmente alla morte.

Questa mancata cura della propria interiorità, questo ci sembra suggerire l’artista, è la fine dell’umano.

Giorgio De Chirico, E ci fu una gran guerra nel cielo, 1941, litografia colorata a mano, 35 x 27,5 cm
Immagine
guerra nel cielo

Per scongiurare la fine dell’umano, che si verifica ogniqualvolta finiamo con l’essere dominati dalle passioni più tristi e più violente che spezzano la vita, dobbiamo lottare dentro di noi contro tutto ciò che, letteralmente, ci mortifica, curandoci o preoccupandoci, all’opposto, di ciò che invece ci vivifica.

Questa dura lotta contro il negativo che alberga nel nostro intimo è perfettamente rappresentata da Giorgio De Chirico in E ci fu una gran guerra nel cielo.

L’opera che avete di fronte è del 1941 ed è tratta dall’Apocalisse: si tratta di un Libro d’Artista con 20 litografie a firma di De Chirico, a cura di Raffaele Carrieri, stampato in solo 160 esemplari.

Delle 20 litografie contenute in ciascun libro, tutte rigorosamente firmate dall’artista, solamente due di esse, a insindacabile giudizio dello stesso, sono state colorate a mano.

L’opera mette dunque in scena la battaglia finale, quella decisiva: la battaglia del bene contro il male, di tutto ciò che ci dà vita contro tutto ciò che invece ce la toglie.

Giorgio De Chirico, nato a Valos, in Grecia, nel 1888 e morto a Roma nel 1978,

fu, con Carlo Carrà, uno degli iniziatori e dei principali esponenti della corrente artistica della Pittura Metafisica.

Dopo una successiva virata verso una pittura apertamente romantica, nell'abbandono del severo rigore di quella forma d’arte che aveva contribuito a creare, passò poi a rievocare motivi classici, quali cavalli in riva al mare e gladiatori, volgendo quindi la sua attenzione verso un realismo d'effetto d'ispirazione seicentesca.

L'amore per la Pittura Metafisica tornò a imporsi nelle ultime opere, dove De Chirico confermò il suo desiderio di svelare il mistero dell'esistenza attraverso il fascino dei suoi quadri.

E ci fu una gran guerra nel cielo si presenta, nell’ambito di questo progetto espositivo, come un invito a prendersi cura della propria interiorità, contrastando quelle passioni tristi che ci dispongono gli uni contro gli altri, per iniziare, invece, a coltivare tutte quelle virtù e quelle disposizioni relazionali che favoriscono l’incontro, la condivisione e il dialogo, nella consapevolezza che la posta in gioco in questo decisivo conflitto è la salvezza della nostra stessa vita.

Bruno Ceccobelli, Luce vera da riflessione, 1998, olio su cartone, 50 x 42 cm
Immagine
Bruno Ceccobelli, Luce vera da riflessione, 1998, olio su cartone, 50 x 42 cm

Luce vera da riflessione, di Bruno Ceccobelli, è il quadro che ci consente il passaggio dal buio alla luce.

E’ ovvero l’opera che ci fa capire quello che accade allorquando subentra quella cura del sé, che, dopo molti sforzi, orientando l’uomo nella direzione dell’amicizia, dell’amore, della compassione e della solidarietà, fa cambiare volto all’umano, rigenerandolo.

L’autore di questo contributo, nato a Montecastello di Vibio (PG) nel 1952 e ora operativo con il suo laboratorio a Todi, deve molto all’artista Toti Scialoja, col quale si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Roma e dal quale ha appreso la teoria e la pratica dell'astrattismo.

Ama e studia artisti come Malevic, Kandinskij, Klee, De Chirico, Brancusi, Beuys, Mirò, Dalí, Tàpies, Magritte; completa poi la sua eclettica formazione giovanile con l’approfondimento dello Zen e del Taoismo.

Dalla seconda metà degli anni Settanta fa parte degli artisti che si insediano nell’ex-pastificio Cerere, a Roma, nel quartiere San Lorenzo, un gruppo di creativi poi noti come Nuova scuola romana.

La sua ricerca è inizialmente di tipo concettuale, per poi giungere a un’astrazione pittorica che approda a un vero e proprio simbolismo spirituale.

Tuttavia, secondo ciò che ha scritto il medesimo Ceccobelli, attraverso lo studio della teosofia, dell'alchimia e delle filosofie orientali, l’artista è gradualmente pervenuto a un vero e proprio simbolismo spirituale e sacrale, che lo differenzia dalle correnti sopra richiamate.

Luce vera da riflessione è un passionato invito a tornare al significato profondo e autentico della figura del Cristo, che è universalmente e trasversalmente, per credenti e non credenti, sinonimo di quell’amore e di quel per-dono in-finto, che, quando si danno, illuminano la vita e le danno piena consistenza.

Prendersi cura della propria interiorità, questo in fondo Ceccobelli ci suggerisce, significa tornare ad imparare autenticamente ad amare e a perdonare, e solo in questo duplice gesto la vita potrà davvero dirsi realizzata, e dunque felice.

Salvador Dalì, Black Madonna, 1974, litografia (ex. 224 di 250), 76 x 56 cm
Immagine
Black Madonna

Salvador Dalì (11 maggio 1904 - 23 gennaio 1989), l’autore dell’opera che avete di fronte, ovvero Black Madonna, è il più famoso dei maestri surrealisti.

Nel 1921, alcuni mesi dopo la morte della madre, fu ammesso all'Accademia d'Arte di S.Fernando a Madrid, dove strinse amicizia con Federico Garcìa Lorca e con il regista Luis Buñuel. Un anno dopo, tuttavia, a causa delle feroci critiche che egli mosse ai suoi insegnanti, venne sospeso; venne definitivamente espulso dall’Accademia nel 1926, anno in cui incontrò Picasso a Parigi.

Nel 1929 ebbe modo di collaborare con Buñuel alla regia del film Un chien andalou e nella capitale francese incontrò Tzara, i surrealisti, Paul Eluard e Gala, sua futura compagna di vita e musa ispiratrice.

Nell'anno successivo Dalì sviluppò il suo celebre metodo paranoico-critico.

Nel 1934 la sua mostra personale a New York riscosse un successo grandioso e nel 1938 partecipò alla mostra internazionale dei surrealisti a Parigi, con cui interruppe però definitivamente i rapporti l’anno successivo.

Nel 1951 inaugurò, con la pubblicazione del Manifesto mistico, il suo periodo corpuscolare.

Nel 1968 espose le sue opere stereoscopiche al Guggenheim Museum e a maggio del 1978 venne nominato membro dell'Académie des Beaux-Arts di Parigi.

Il 23 gennaio del 1989, infine, Salvador Dalì morì nella torre Galatea a causa di un colpo apoplettico.

Black Madonna è sostanzialmente un tributo filosofico-teologico alla figura di Maria, qui colta, con un volto e una posa per nulla scomposti, nell’atto tutto drammatico, quasi a novella Pietà, in cui riceve tra le braccia il corpo del Figlio morto, presentandolo al mondo, proprio a motivo della passione appena consumata, in tutta la sua gloria.

Maria, come Gesù, è nella storia dell’Occidente sinonimo di amore, di relazionalità, di accoglienza, di dono e di per-dono, insomma di tutti quelle disposizioni virtuose oggi dimenticate che, se fatte ancora una volta nostre, a prescindere dalla sensibilità religiosa di ciascuno di noi, nella cura dell’interiorità, consentirebbero all’umanità pienezza, felicità, e quindi un’autentica ri-nascita a vita nuova.

Costantino Ruggeri, Forma bianca. Spazio mistico, 1964, Tecnica mista, 75 x 41 x 5 cm
Immagine
forma bianca

A proseguire lungo questa linea tematica è l’opera di Padre Costantino Ruggeri intitolata Forma bianca. Spazio mistico, del 1964, che potete ammirare accanto al capolavoro di S. Dalì.

L’artista nasce nel 1925 in Franciacorta.

Fin da giovanissimo avverte la vocazione religiosa e, con il sostegno della madre, entra nel Collegio Serafico di Rodengo Saiano, dove prende avvio anche il suo percorso artistico.

Durante la Seconda guerra mondiale prosegue la formazione religiosa e culturale, arricchita da studi classici e da incontri significativi, come quello con il pittore Donato Frisia.

A Busto Arsizio approfondisce la teologia e realizza i suoi primi affreschi.

Nel 1949 si trasferisce a Milano per proseguire gli studi, entrando in contatto con importanti figure del panorama artistico e architettonico, tra cui Mario Sironi, Luigi Figini, Gino Pollini, Giò Ponti e Lucio Fontana.

Debutta nel 1951 con una mostra alla Galleria San Fedele e ottiene subito riconoscimenti di rilievo; tra questi i premi San Fedele e Marzotto.

Nel 1954 partecipa alla X Triennale di Milano e realizza una croce premiata a Salisburgo, dando inizio alla sua profonda riflessione sull’arte sacra e gli spazi mistici.

Dal 1958 si stabilisce a Pavia: inizia un’intensa attività artistica che lo porta a progettare e realizzare numerose chiese, sia in Italia che all’estero.

Tra le opere più rilevanti si annoverano il Nuovo Santuario del Divino Amore a Roma, la chiesa di San Francesco Saverio a Yamaguchi, in Giappone, e il Santuario della Theotokos a Betlemme, in Palestina.

Nel 1993 fonda la Fondazione Frate Sole, dedicata alla promozione dell’architettura sacra, istituendo anche un prestigioso premio internazionale.

Padre Costantino Ruggeri si spegne il 25 giugno 2007 a Sabbioncello, lasciando un’eredità spirituale e artistica di straordinario valore.

Anche per Padre Costantino Gesù è sinonimo di quelle parole, quali amore e per-dono, che, esse sole, sono in grado di fondare la vita buona.

Matteo Domenico Borioli, Omaggio a Keith Haring, 2025, vernice su tela, 50x50
Immagine
Matteo Domenico Borioli, Omaggio a Keith Haring, 2025, vernice su tela, 50x50

Il pittore pavese Matteo Domenico Borioli, altresì noto come il Marchese della Pop art, a motivo della propensione a portare in scena nelle tele che realizza soggetti e ambientazioni tratti dalla cultura di massa, con particolare riferimento alle pubblicità, ai fumetti e al mondo del cinema, rompe per la presente occasione con questa linea propendendo piuttosto per un omaggio a Keith Harig.

Nell’opera che state osservando ritornano infatti i motivi tipici dell’artista statunitense: sopra due uomini, riprodotti secondo la forma e il tratto caratteristici di Haring nell’atto di con-vergere, e cioè di avvicinarsi l’uno all’altro, producendo così una sorta di grande abbraccio che ‘ingloba’ anche un terzo soggetto, si afferma con energia un grande cuore rosso, simbolo universale di gioia e di amore.

La scena che avete dinanzi, che proprio in questo si qualifica come un vero omaggio alla street art del pittore e graffitista americano, si presenta dunque come un inno all’amicizia, all’amore, alla reciprocità e alla solidarietà quali uniche disposizioni in grado di fare consistere autenticamente l’essere umano.

Noi tutti, questo ci suggerisce Matteo Borioli, diventiamo uomini compiuti solamente allorquando, vincendo le passioni tristi e ogni diffidenza, scegliamo di diventare figure della relazione, aprendoci al dialogo, all’ascolto, alla condivisione e all’amicizia nei confronti dell’altro.

Ecco il messaggio che, in definitiva, Matteo Borioli, omaggiando Keith Haring con questa sua opera, ci propone in chiusura della seconda parte di questa mostra.

La cura di tutti gli altri
Ai Weiwei, Odissey, 2017, litografia offset su carta, 90 x 60 cm - Tir. 1000
Immagine
Ai Weiwei, Odissey, 2017, litografia offset su carta, 90 x 60 cm - Tir. 1000

Nella terza sezione della mostra ci si sofferma sull'importanza della cura dell'altro, di tutti gli altri: della cura, cioè, dell'altro per provenienza, dell'altro per cultura, dell'altro per religione, dell'altro per posizione sociale o censo e, infine, dell'altro per età.

Si concentra quindi l'attenzione su concetti quali accoglienza, dialogo interculturale, dialogo interreligioso, generosità e dialogo intergenerazionale.

A parlarci della prima di queste forme della cura dell’alterità è Ai Weiwei con il suo Odissey, del 2017.

L’artista, nato a Pechino nel 1957, attualmente vive e lavora a Cambridge.

Figlio del poeta Ai Qing, nel 1978 si è iscritto alla Film Academy di Pechino e ha fondato il gruppo di avanguardia Stars.

Nel 1982 si è trasferito a New York, dove ha frequentato la Parsons school of design e ha acquisito notorietà come artista concettuale.

Nel 1993 è poi tornato in Cina per assistere il padre malato e ha introdotto nel paese le esperienze artistiche newyorchesi.

Nel 2000 ha fondato lo studio di architettura FAKE Design e nel 2003, insieme a Herzog & de Meuron, è stato consulente artistico della progettazione dello stadio nazionale olimpico di Pechino, noto come Nido d’uccello.

Dopo aver espresso sul suo blog frequenti critiche contro il governo cinese, che ha accusato di corruzione e dispotismo, il 2 aprile 2011 è stato arrestato dalla polizia cinese per evasione fiscale ed è stato rilasciato su cauzione il successivo 22 giugno, costretto agli arresti domiciliari.

A luglio del 2012 è stato respinto in appello il ricorso dell'artista contro l'accusa di evasione fiscale, per il quale gli era stata comminata una multa di due milioni di euro.

Le sue installazioni artistiche sono state esposte nei principali musei d’arte contemporanea del mondo.

Odissey racconta le migrazioni dei popoli e insiste, come si può vedere nel quadro, sulla storicità di questo fenomeno, che ha trasversalmente caratterizzato l’intera umanità in tutte le sue epoche, suggerendo con forza il messaggio che è proprio e solamente attraverso la contaminazione che si dà il progresso e la crescita dei popoli, allorquando essi, nell’accoglienza, si rendono disponibili al dialogo, al confronto e all’integrazione.

No one is illegal, ci suggerisce Ai Weiwei: noi potremmo anche aggiungere che l’altro per provenienza non solo non è un pericolo o una minaccia, ma rappresenta, se accolto, un’occasione unica di arricchimento.

Maurizio Galimberti, Lissy Asser, 1999, pigmenti su cartoncino cotone 520 gr (ex. 4 di 5), 100 x 70 cm
Immagine
Maurizio Galimberti, Lissy Asser, 1999, pigmenti su cartoncino cotone 520 gr (ex. 4 di 5), 100 x 70 cm

A farci invece riflettere sull’altro che si distingue da noi per cultura, anche se non necessariamente per provenienza, è Maurizio Galimberti con il suo Lissy Asser, opera del 1999.

L’artista, nato a Como nel 1956, attualmente molto attivo nel milanese, è tra i maggiori fotografi italiani.

Nel 1991 inizia un’importante collaborazione con Polaroid Italia, della quale diventa testimonial con il volume Polaroid Pro Art nel 1995, vero e proprio oggetto di culto per gli appassionati della pellicola polaroid di tipo integrale.

Nominato Instant Artist, è ideatore della Polaroid Collection Italiana e nel 1992 vince il premio Gran Prix Kodak Pubblicità Italia.

Per Kodak Italia presenta nel 2000 la mostra I Maestri.

Continua poi la sua ricerca con Polaroid e re-inventa la tecnica del Mosaico Fotografico, che inizialmente adatta ai ritratti: si tratta di opere nelle quali il soggetto, sia esso una persona o una porzione di città, viene scomposto in numerosi scatti, spesso corrispondenti a diverse prospettive, e ricomposto quindi in un'immagine sfaccettata, matematica nel suo rigore e musicale nell'armonia d'insieme.

L’intento di Galimberti, attraverso questa tecnica, è quello di catturare la personalità, il carattere del soggetto rappresentato, non già un’espressione, reinterpretando così il genere stesso del ritratto.

Il Mosaico diviene presto la sua tecnica per ritrarre volti, paesaggi, architetture e città.

Nel 2022  è stato insignito del prestigioso premio A.I.F. alla carriera, Palazzo Reale Milano. Espone regolarmente in città internazionali come Venezia, Berlino e New York.

La foto dell’artista esposta in questa mostra rappresenta uno dei momenti più tragici della storia contemporanea, ovvero la deportazione di massa degli ebrei nella Germania nazista: si tratta del ritratto di una giovane ragazza, Lissy Asser, tristemente coinvolta in questa sciagurata azione violenta.

Galimberti denuncia l’accaduto perché non abbia mai più a ripetersi: gli altri per cultura, in un periodo storico in cui le nostre società sono multietniche e multiculturali, non vanno segregati o emarginati, men che meno brutalmente fatti oggetto della nostra violenza, vanno anzi conosciuti, apprezzati e valorizzati per quel che sono e per quello che, nel dialogo, possono donarci, anche in questo caso arricchendoci.

Edgardo Antonio Vigo, Un Cristo roto para una humanidad violenta, 1979, collage su carta, 50 x 35 cm
Immagine
Edgardo Antonio Vigo, Un Cristo roto para una humanidad violenta, 1979, collage su carta, 50 x 35 cm

La terza opera di questa sezione, Un Cristo roto para una humanidad violenta, realizzata da Edgardo Vigo nel 1979, sollecita invece una riflessione sul modo più virtuoso possibile attraverso cui mettere pacificamente in dialogo le diverse culture religiose che abitano il mondo e, contestualmente, le nostre città, senza che la molteplice presenza delle stesse in spazi comuni abbia inevitabilmente a scadere in violenza.

Nato a La Plata (Argentina) nel 1928 e morto nella sua città nel 1997, l’artista è un poeta visuale e sperimentale, editore, mail artist, insomma una figura assai ricca e complessa.

Innovatore costante, il cui lavoro, scoperto solo di recente, continua a sorprendere, dato il carattere assai particolare dei suoi progetti, in cui si può notare l’influenza di Marcel Duchamp, nel 1955 fonda il gruppo Standard'55 con Osvaldo Gigli e con Michelangelo Guerena.

Nello stesso periodo assume la direzione della sezione arti del quotidiano El Argentino.

L'anno seguente inizia la pubblicazione di Diagonal Zero (1962-1969), una rivista trimestrale dedicata alla promozione della poesia sperimentale.

Ha inoltre fondato il Museo della Xilografia.

Tra il 1971 e il 1975 pubblica la rivista Hexagon '71, altra pubblicazione dedicata alla teoria e alla poesia sperimentale. Nel 1975, insieme con Horacio Zabala, organizza la prima mostra argentina di Mail Art.

L'arrivo della dittatura militare nel 1976 crea nel suo intimo un’insanabile frattura: il figlio Abel Luis diventa desaparecido. Ha iniziato, da allora, a utilizzare il circuito di mail-art per informare circa le condizioni della vita in Argentina durante il regime di fatto.

Il quadro dell’artista rappresenta il peggiore dei nostri incubi, ovvero il tradursi della fede che libera, qualunque esse sia, o dello spirito che vivifica nella più deteriore delle religioni che, interrompendo il dialogo con le altre spiritualità, si impone al mondo e fa violenza, identificandosi quindi come l’unica possibile via di salvezza di contro a tutti, con il dovere, questi tutti, in un modo o nell’altro, di annientarli o di ‘correggerli’.                                                                                                                                   Ogniqualvolta la vita nella e della fede muore a vantaggio della violenza della religione, Cristo stesso muore: Vigo, genialmente, lo rappresenta in Croce, il supremo atto di salvezza o di per-dono, come spezzato in due, frantumato o vanificato nel suo amore.

Lamberto Pignotti, E’ ora di un altro miracolo, 2008, collage su cartone, 50 x 70 cm
Immagine
Lamberto Pignotti, E’ ora di un altro miracolo, 2008, collage su cartone, 50 x 70 cm

E’ ora di un altro miracolo di Lamberto Pignotti, del 2008, sposta ora l’attenzione sulle disuguaglianze sociali e, in particolare modo, su quegli altri con cui molti della nostra società, i più benestanti, fanno fatica a rapportarsi, in quanto appartenenti, per censo, a categorie differenti.

La risposta a questo dramma è il recupero di quella disposizione virtuosa che è la generosità, che consente un ricongiungimento degli estremi della piramide sociale.

Lamberto Pignotti, nato a Firenze nel 1926 e tutt’oggi ancora artisticamente attivo a Roma, è un poeta lineare e visivo, fra i maggiori a livello italiano e internazionale.

Nel 1956, fonda la rivista Quartiere, dalle cui pagine teorizza la nascita di una poesia che oltrepassi il linguaggio pienamente letterario o poetico per un linguaggio diverso, che Pignotti simbolicamente definisce tecnologico, perché fondato sull’impiego di materiali tratti dai mass-media.

Nel 1962 produce le sue prime poesie visive e nel maggio 1963, a seguito del Convegno Internazionale sul tema Arte e Comunicazione svoltosi a Firenze, a Forte Belvedere, Pignotti, insieme ad Eugenio Miccini, fonda il Gruppo 70, il gruppo dei Poeti Visivi fiorentini.

Nell’Ottobre 1963 partecipa alla costituzione del Gruppo 63, al quale aderiscono gran parte dei letterati italiani emergenti, da Eco a Sanguineti. Nel 1965, invece, cura la prima Antologia della Poesia Visiva.

Quest’ultima, appropriandosi di immagini pubblicate in giornali e riviste, di fotogrammi da film o slogan pubblicitari, opera un’azione di svuotamento di senso del significato primario di una parola o di un’immagine, addivenendo ad una sorta di ricostruzione boomerang che “respinge la merce al mittente”, come dichiara l’artista.

Di Pignotti si sono occupati i critici Gillo Dorfles, Giulio Carlo Argan, Umberto Eco, Achille Bonito Oliva, Renato Barilli e Arturo Carlo Quintavalle.

Gino De Dominicis, La Famiglia (Trittico: Padre, Madre, Figlio), 1972, litografia, ex 47 di 100, 70 x 70 cm
Immagine
Gino De Dominicis, La Famiglia (Trittico: Padre, Madre, Figlio), 1972, litografia, ex 47 di 100, 70 x 70 cm

L’opera posta in chiusura di questa sezione, La Famiglia (Trittico: Padre, Madre, Figlio) di Gino De Dominicis, del 1972, affronta l’ultima forma della cura dell’altro che questa mostra intende mettere a tema, ovvero la cura di quanti sono distanti da noi per età, attraverso la proposta di un recupero effettivo ed efficace del dialogo intergerazionale.

Gino De Dominicis, nato ad Ancona nel 1947 e morto a Roma nel 1998, pittore e scultore italiano sostanzialmente indipendente da mode e da correnti artistiche, quantunque vicino all’Arte Concettuale, è un immenso concentratore di energie creative, vitali e spirituali, percepite in chiave anti-tradizionalista.

La colonna e il fondamento della sua produzione è il concetto d’Immortalità: la pratica delle tre Soluzioni d’Immortalità (immobilità, invisibilità, bellezza)  convergono sulla Prima Soluzione (mai però rivelata) dell’Immortalità del corpo.

La conquista dell’immortalità fisica, l’eterno dominio del tempo corporale, ossia di quel confine sottile fra mobile e immobile, fra visibile e invisibile, rispetto al quale le condizioni convenzionali del tempo e dello spazio sono effimere e caduche, è l’aspirazione di De Dominicis.

L’immortalità che De Dominicis predica e propaganda non consiste nel risorgere dopo la morte, ma nel limitare la morte stessa.

Che l'arte non avanzi, non evolva, cioè non progredisca in forza di un lineare sviluppo temporale, ma sia, invece, capace di introdurre novità di cui non c'era percezione in precedenza, è la tesi della poetica dell'Immortalità dell’Arte dell’artista.

Venendo poi all’aspetto dell’Arte moltiplicata, De Dominicis contrappone sostanzialmente l’Antimultiplo, una concezione grandemente elitaria e aristocratica del concetto di opera d’arte. Quasi inesistente è, infatti, la produzione di opere seriali da parte dell’artista marchigiano (5 solamente sono i soggetti grafici realizzati, di cui 4 tirati a 100 esemplari e uno solo a 300) ed emblematica in tal senso è la storia della stessa cartella serigrafica realizzata per Artestudio di Pio Monti, relativa al trittico esposto nella presente mostra, Padre – Madre – Figlio, che, dopo essere stata debitamente numerata e firmata di pugno dall’artista, venne parzialmente distrutta dal medesimo davanti agli occhi increduli del gallerista/editore, così da rarefarne ulteriormente il già esiguo numero, e conseguentemente la relativa diffusione, in modo da attribuire all’operato artistico una valenza iniziatica ancor più evidente  attraverso un’azione marcatamente sacrificale/purificatrice.

Questa è la cifra della visione creativa, unica e irripetibile, dell’Artista Immortale Gino De Dominicis, platonico e immobile, che ha sempre vissuto nel segno eternante dell’Arte, e che potete eccezionalmente toccare con mano nel quadro che avete dinanzi a voi.

La politica o l’arte della cura del mondo
Giansisto Gasparini, Un oratore, 1960, olio su tela, 90x80 cm
Immagine
Giansisto Gasparini, Un oratore, 1960, olio su tela, 90x80 cm

Nato a Casteggio, in provincia di Pavia, nel 1924, Giansisto Gasparini ha frequentato l’Accademia delle Belle Arti di Brera ed ha esposto in diverse gallerie milanesi negli anni del dopoguerra.

Durante la sua carriera ha sempre fatto volentieri riferimento alla Galleria Borgonovo, che è divenuta negli anni, per lui, una solida base per la promozione e per la diffusione della sua arte nel territorio lombardo.

Le opere dell’artista insistono spesso sulle realtà operaie e contadine e sono vicine al realismo esistenziale, la stessa corrente artistica cui appartiene Mino Ceretti.

E’ evidente, all’interno dell’intera produzione di Gasparini e, più in particolare, nel pezzo esposto al pubblico in questa mostra, una riflessione insistente nella direzione delle grandi questioni etico-politico-sociali che, ai suoi tempi, infiammavano il mondo.

Accanto a vere e proprie ‘fotografie’ scattate sulle diverse condizioni che caratterizzavano i diversi strati sociali, per documentarle e, così facendo, per sensibilizzare largamente il pubblico sullo stato degli appartenenti a tutti i diversi gradini della piramide sociale, la riflessione dell’artista si concentra sulla natura della vera, e quindi buona, politica.

L’opera che vedete raffigura un politico impegnato in un comizio proprio mentre sta tenendo, appassionatamente, il discorso che ha deciso di indirizzare a quella folla che, sebbene non compaia nel quadro, possiamo tranquillamente presumere sia lì, dinanzi a lui, curiosa, ad ascoltarlo con attenzione.

Non sappiamo che cosa costui stia dicendo, ma di certo una domanda questa scena in noi la suscita, sollevando una sorta di dubbio: questo politico starà impegnato in un esercizio di vera oratoria o piuttosto in un esercizio di vuota retorica?

Tradotto, la sua parola, e quindi il suo modo di fare politica, è un ponte verso l’altro, un servizio, un tentativo di venire incontro veramente alle esigenze altrui, oppure è semplicemente un’enunciazione di promesse irrealizzabili, un’illusione che diventa cioè delusione, finalizzata all’ottenimento del mero consenso per la salvaguardia del proprio ruolo e della propria carica?

Giansisto Gasparini sembra provocarci: che cosa starà starà mai dicendo costui e, sopratutto, chi sarà, un buon politico, che intende la politica come arte della cura del mondo, o un pessimo politico, che vede in essa solamente un veicolo per la realizzazione personale?

Dietrich Albrecht, Pinochet, 1970, collage e china su carta, 41 x 29 cm
Immagine
Dietrich Albrecht, Pinochet, 1970, collage e china su carta, 41 x 29 cm

Se la politica finisce con l’essere null’altro che un esercizio di auto-affermazione personale, potremmo dire che si ottiene quello che mette in scena Dietrich Albrecht nel suo Pinochet, che non a caso ha come protagonista il celebre dittatore che governò il Cile dal 1973 al 1990, ricordato per le molteplici violazioni dei diritti umani e per l'uso di metodi fortemente repressivi che lo hanno contraddistinto. L’artista tedesco, nato in Germania nel 1944 e morto nel 2013, è una figura complessa: artista visuale, poeta sonoro e anche mail artist, associato a Fluxus. Influenzato da Raoul Hausmann, Han Harp e Kurt Schwitters, ha iniziato la sua attività artistica nel 1966 e nel 1968 ha fondato Reflection Press, pubblicando un’ampia varietà di riviste e musicassette.

L’opera che vedete è una perfetta sintesi della pluriforme e articolata personalità di Dietrich Albrecht, oltreché una chiara e netta presa di distanza, da parte sua, da ogni forma degenerata di politica, che non può finire che con il tradursi, quando essa diviene dimentica di essere l’arte del servizio par excellence o l’arte della cura delle relazioni che costituiscono le società che abitano il mondo, in violenza, sopraffazione e morte.

Augusto Garau, Collage (alias Mahatma Gandhi), 1970, tela emulsionata, 81 x 100 cm
Immagine
Augusto Garau, Collage (alias Mahatma Gandhi), 1970, tela emulsionata, 81 x 100 cm

Se la politica, invece, rimane fedele alla sua origine e alla sua natura, e viene quindi intesa come l’arte della cura del mondo nella ricerca congiunta del bene comune, al servizio dell’altro e di tutte le sue necessità, per la realizzazione di una società in cui giustizia (per tutti), sicurezza, prosperità, inclusione, pluralità, dialogo e pace siano le parole guida, si ha, all’opposto, quanto porta in scena Augusto Garau nel suo Collage.

Al centro del quadro si impone, infatti, proprio la figura che, forse più di ogni altra, ha incarnato questo modo di intendere e di praticare la politica, e cioè la buona politica: Gandhi.

L’autore dell’opera, Augusto Garau, nato a Bolzano nel 1923 e morto a Milano nel 2010, è un illustre studioso della teoria del colore.

Ha mosso i primi passi artistici all’interno del movimento Oltre Guernica (1946) e del M.A.C. (Movimento Arte Concreta), fondato nel 1948 da Atanasio Soldati, di cui Garau è stato il più giovane artista aderente.

Fra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 del secolo scorso l’artista orienta la propria indagine in seno agli ambiti della Poesia Visiva e della Poesia Concreta, giungendo ad operare un ingigantimento delle forme verbali tale da liberarne la connotazione comunicativa a beneficio di una ricerca astratto-geometrica.

Tale indagine lo porta, a metà degli anni ’70, ad ideare i cicli delle celeberrime “C” e quindi delle “Superfici Anomale” e dei “Continuum”.

Di grande rilevanza sono stati i prosceni espositivi che hanno visto protagoniste le opere di Augusto Garau: dalla Martin’s Gallery (Londra, 1964) a Palazzo Venezia (Roma, 1983); dalla Civica Galleria d’Arte Moderna (Gallarate, 1983 e 1997), passando attraverso la Mostra Storica M.A.C. presso la Civica Galleria d’Arte Moderna di Gallarate nel 1984 e la Biennale Internazionale d’Arte di Venezia nel 1986.

Nel 2014 al Palazzo del Broletto a Pavia si è tenuta la mostra antologica Augusto Garau. Dal Mac alla Gestalt, curata dal critico Giosuè Allegrini.

Luigi Dellatorre, Cucire il mondo # 237 (lacerto mondo), 2023, tecnica mista, tela jeans, cuciture, colore vinilico, resina sintetica, 98x69 cm
Immagine
Luigi Dellatorre, Cucire il mondo # 237 (lacerto mondo), 2023, tecnica mista, tela jeans, cuciture, colore vinilico, resina sintetica, 98x69 cm

Luigi Dellatorre in Cucire il mondo, del 2023, ha voluto rappresentare gli effetti di quella buona politica di cui abbiamo parlato a partire dal contributo di Garau.

Essa, se è davvero tale, si presenta come l’arte della cura par excellence, ovvero si configura come quella tecnica che ambisce a ricucire il mondo, come si vede plasticamente nell’opera attraverso le suture operate tra i diversi continenti dall’artista stesso per il tramite di un filo, verso la pace, se possibile, perpetua -il nobile sogno di Kant.

Suturare le ferite nelle città, negli Stati e nei continenti: non c’è rigenerazione dell’umano più amabile di questa, questo ci suggerisce Dellatorre.

Originario di Cassolnovo, in provincia di Pavia, l’artista attualmente vive e lavora a Londra.

Ha iniziato l'attività artistica seguendo due passioni: l’arte e il teatro.

Nel 1977 è prevalsa definitivamente la passione per l’arte, che lo ha spinto a frequentare i corsi serali di disegno, di pittura e di ceramica all'Istituto di Arti e Mestieri Vincenzo Roncalli di Vigevano.

Ma la vera formazione artistica Dellatorre l'ha conseguita da autodidatta, attraverso lo studio delle arti di ogni tempo, il lavoro assiduo, la vivace curiosità e la costante frequentazione degli ambienti artistici e culturali di Milano: molte opere testimoniano il suo vivo interesse per questa città.

Cucire il mondo è una metafora nella quale al senso di precarietà si accosta l'invito a promuovere l'umana convivenza e la salvaguardia del pianeta, nella direzione di quella pace universale di cui ci parleranno anche i successivi pezzi esposti in mostra.

Malipiero, Nessuna guerra è santa, 2006, collage su cartone, 40 x 70 cm
Immagine
Malipiero, Nessuna guerra è santa, 2006, collage su cartone, 40 x 70 cm

Mala tempora currunt: oggi ci troviamo immersi in un flusso inarrestabile di conflitti, fra situazioni di forte tensione, ostilità incessanti, discordie ataviche, nazionalismi disgreganti, guerre senza fine, dittature sanguinarie, criminosi atti terroristici, e poi ancora violenze domestiche e soprusi perpetrati ai danni delle categorie più deboli.

Questa è la cifra del mondo odierno, frutto dell’odio diffuso che si palesa quotidianamente davanti ai nostri occhi e che ci inorridisce.

Quella stessa guerra, definita a suo tempo da Leonardo Da Vinci “pazzia bestialissima”, assume così ai nostri tempi, tra le tante guerre in corso, un’infinita varietà di chiavi di lettura e una poliedricità di approcci interpretativi.

Malipiero, ovvero Piero Maffessoli, di origini bresciane, classe 1934, è un fervido sostenitore della Poesia visiva fin dalla nascita di questo movimento artistico: è stato fondatore della rivista Visual con Antonio Bueno, Edoardo Sanguinetti, Ermanno Migliorini, Achille Bonito Oliva, Umberto Eco, Giuseppe Chiari, Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini e Gualtiero Nativi.

Nel 1979, cessata l'esperienza di Visual, ha dato inizio alle pubblicazioni di Meta. Parole e immagini, diretta da Claudio Cerritelli.

Dopo varie esperienze nel campo della creatività legata alla parola, ai colori e alla carta, l’artista ha elaborato una tecnica particolare nell’ambito della fotografia: il cosiddetto rollage, ossia lo smontaggio e il rimontaggio di rappresentazioni grafiche sovrapposte, con la tecnica del collage, creando così un particolare linguaggio espressivo in analogia con quanto realizzato dal poeta visuale cecosvlovacco Jiri Kolar.

Nell’opera esposta, che ben sintetizza lo stile innovativo di Malipiero, la più dura condanna ad ogni forma di violenza e di guerra perpetrate da un essere umano contro un altro si associa alla riscoperta di ideali quali pace, democrazia, libertà, solidarietà e convivenza civile, nella forte consapevolezza che, come recita il titolo del quadro esposto, nessuna guerra è mai stata ed è santa.

GAS Collettivo d’Arte Indipendente (Gimaka, Alex Caminiti, Sadif), Happiness, 2019, tecnica mista su elmetto militare, 18 x 23 x 27,5 cm
Immagine
GAS Collettivo d’Arte Indipendente (Gimaka, Alex Caminiti, Sadif), Happiness, 2019, tecnica mista su elmetto militare, 18 x 23 x 27,5 cm

A condannare la guerra è anche il Collettivo d’Arte Indipendente GAS, composto dagli artisti Gimaka, Alex Caminiti e Shadif.

I tre hanno in comune un’ottima perizia tecnica: grande attenzione al linguaggio figurativo le due donne, ovvero Gimaka e Shadif, e la capacità di passare con leggerezza e grande competenza linguistica dalla figurazione all’astrattismo Caminiti.

Se di quest’ultimo si annoverano già numerose mostre in giro per il mondo, in musei e istituzioni pubbliche di rilievo (dalla Cina al Sudamerica passando per Russia, Giappone, Canada, Usa, e naturalmente in Italia), le due artiste di origine africana hanno una lunga esperienza nel mondo dell’arte, ma il loro lavoro è stato perlopiù svolto “dietro le quinte”, e non da protagoniste.

L’operazione di GAS è quindi un atto di coraggio, il tentativo di far emergere il sommerso, di valorizzare cioè appieno queste due figure non debitamente, fino alla nascita del collettivo, considerate nel mondo dell’arte, a motivo sia della loro provenienza che del loro sesso.

Una scommessa coraggiosa, che prova a far saltare i meccanismi classici del sistema dell’arte pre-covid, chiuso in categorie che difficilmente avevano la possibilità di mescolarsi rovesciando ruoli e situazioni ingabbiate.

Il primo appuntamento espositivo del collettivo GAS è stata la mostra pubblica a Palazzo Zanca di Messina, cui ne è seguita una a Shanghai nel 2021, per approdare infine alla biennale di Curitiba al Museu Oscar Neymar.

L’elmetto che vedete ambisce a suggerire agli uomini di tutto il mondo che è giunto finalmente il tempo di trasformare gli strumenti di guerra in strumenti di pace, sostituendo al linguaggio d’odio un linguaggio d’amore: solo così sarà allora per tutti veramente possibile quella felicità (Happiness) che campeggia su uno dei dati dell’opera che avete dinanzi a voi e che dà il titolo al pezzo.

Banksy, CND Soldiers (Peace Soldiers), 2015, pittura a spray su cartone (ex. 47 di 50), 31 x 20 cm
Immagine
Banksy, CND Soldiers (Peace Soldiers), 2015, pittura a spray su cartone (ex. 47 di 50), 31 x 20 cm

L’opera che vedete, CND Soldiers (Peace Soldiers), è firmata dal celebre artista e writer inglese Banksy.

Attivo in tutto il mondo e considerato il massimo esponente della Street Art dei nostri tempi, non ha mai rivelato la sua vera identità, che rimane ad oggi ignota.

Negli anni sono state formulate moltissime ipotesi: l’unica informazione che tuttavia appare certa è che l’artista sia nato a Bristol nel 1974.

La Street Art di Banksy è di natura satirica e sovversiva: le sue opere, caratterizzate da un umorismo oscuro, si compongono di graffiti eseguiti con la tecnica dello stencil, che consente una rapidissima realizzazione del pezzo, dettaglio di particolare importanza allorquando si tratta di mantenere l’anonimato.

I suoi murales di critica sociale e politica sono apparsi nell’arco degli ultimi decenni su strade, muri e ponti di città di tutto mondo.

Le sue opere trattano diverse tematiche: le assurdità della società occidentale, la manipolazione mediatica, l'omologazione, le atrocità della guerra, l'inquinamento, lo sfruttamento minorile, la brutalità della repressione poliziesca e il maltrattamento degli animali.

Per veicolare i suoi messaggi, l’artista fa ricorso a un'ampia gamma di soggetti, quali scimmie, topi (celebri ormai i suoi rats), poliziotti, ma anche bambini, gatti e membri della famiglia reale.

Manipolando abilmente i codici comunicativi della cultura di massa, Banksy traspone i temi atroci di cui si occupa in opere piacevoli e brillanti, in grado di sensibilizzare sulle problematiche proposte e di trasformare il tessuto urbanistico delle città occidentali, facendole diventare un luogo di riflessione.

L’opera esposta, come le precedenti, è un inno alla pace contro le atrocità della guerra.

Ruggero Maggi, Cara Pace, 2018, smalti su antico carapace, sabbia e uova, dimensioni variabili
Immagine
Ruggero Maggi, Cara Pace, 2018, smalti su antico carapace, sabbia e uova, dimensioni variabili

In chiusura di questa sezione della mostra, dedicata alla buona politica come arte della cura del mondo verso la pace, abbiamo deciso di collocare un’opera molto suggestiva ed evocativa: il Cara Pace di Ruggero Maggi.

Nato a Torino nel 1950, tutt’ora attivo a Milano, l’artista basa la sua ricerca sulla sperimentazione di ogni possibilità tecnologica, utilizzando elementi quali il laser, l’olografia, il neon, insieme a materiali primari come rocce, canapa, sabbia.

Pittura, scultura, installazioni, performance: l’opera di Ruggero Maggi è legata ad un approccio etico del linguaggio.

L’universo dell’artista è quello della morale: da Hiroshima all’Amazzonia, l’artista ha affrontato temi legati al destino profondo dell’umano, al suo ruolo e alla sua funzione sul pianeta.

Ruggero Maggi, dall’inizio del suo impegno, ha assunto una sfida fondamentale: la rivoluzione della verità.

Il criterio fondamentale della sua estetica è infatti il vero. Il vero che si sostituisce al bello, al bello dei canoni tradizionali dell’Arte.

L’opera che vedete, un guscio antico di una tartaruga marina, su cui l’artista ha voluto riportare insieme i numerosi colori della sua tavolozza, rappresenta una sorta di arcobaleno in cui tutte le diversità sono sinergicamente raccolte in un’unità che, non mortificandone nessuna, tutte le valorizza.

E’ il segno di che cosa dovrebbe essere la pace: l’unità rispettosa di quei molti che, pur rimanendo tali senza sciogliersi in una posticcia e vuota coincidenza che elimini la specificità di ciascuno, concorda i diversi in uno sforzo dialogico in-finito che consente agli uni di conoscersi meglio proprio attraverso l’incontro con gli altri.

Questo, però, è possibile sotto il segno di un impegno reciproco all’incontro continuo, che smorza ogni possibile contrasto/conflitto e che disegna piuttosto uno sfondo irenico.

Se le cose stanno davvero così, la pace è allora il luogo della verità, quello in cui, dismessa ogni violenza, l’altro, da nemico diventato amico, consente quel dialogo fecondo attraverso cui a ciascuno di noi è dato conoscersi meglio e più profondamente, e cioè più veramente.

L’estetica o la cura integrale dell’umano
Luigi Tola, E penetrare quindi la materia, il corpo, la sostanza da qui, 1972, 63x90 cm
Immagine
Luigi Tola, E penetrare quindi la materia, il corpo, la sostanza da qui, 1972,  63x90 cm

La quinta e ultima parte della mostra invita lo spettatore a concentrare l’attenzione sull’arte: essa è il linguaggio della cura integrale dell’uomo.

Il nostro sguardo distratto, provocato dall'opera, viene riportato all'essenziale, 'costretto' così alla riflessione sui temi decisivi dell'umano, cui l'arte inevitabilmente rimanda.

Così va interpretata l’opera che avete dinanzi, E penetrare quindi la materia, il corpo, la sostanza da qui di Luigi Tola, esposta alla Biennale di Venezia del 1972.

L’artista genovese, nato il 5 ottobre 1930 e morto il 25 giugno 2014, scrittore, poeta lineare e poeta visivo, fu ideatore, fra la fine degli anni ’40 primi e l’inizio degli anni ’50 del secolo scorso, della Poesia Murale, che avrà una parte rilevante nel successivo sviluppo della Poesia Visiva.

Negli anni '50 Luigi Tola partecipa alla fondazione de Il portico, un circolo culturale con sede a Sampierdarena, il polo industriale alle porte di Genova.

Fa seguito la sua adesione alla fondazione del Gruppo Studio insieme a Germano Celant, Rodolfo Vitone e Guido Ziveri.

Alla realtà del Gruppo viene affiancata la pubblicazione della rivista di cultura contemporanea Marcatré, la cui direzione è affidata ad Eugenio Battisti.

Ad essa collaborano molti degli intellettuali italiani aderenti al Gruppo '63 - di cui fa parte lo stesso Tola - da Eco a Portoghesi a Sanguineti.

A metà degli anni ’60, Tola dà vita ad un nuovo centro di aggregazione multimediale: la Carabaga. Ideatore e curatore delle iniziative, vi realizza importanti rassegne d'arte sperimentale e d'avanguardia.

E penetrare quindi la materia, il corpo, la sostanza da qui esprime il significato profondo dell’arte, che con la sua potenza e con la sua efficacia, consente all’uomo di penetrarsi a fondo, per l’appunto, e quindi di conoscersi.

L’arte, come Tola ci insegna, è un formidabile spazio di pensiero, e pertanto un’occasione unica e irripetibile di conoscenza dell’umano.

Virgilio Guidi, Senza Titolo (ciclo Architettura Spaziale), primi anni ’60, tempera su carta intelata, 35 x 49 cm
Immagine
Virgilio Guidi, Senza Titolo (ciclo Architettura Spaziale), primi anni ’60, tempera su carta intelata, 35 x 49 cm

L’opera di Virgilio Guidi insiste sul medesimo tema del pezzo precedente, ovvero sull’arte come veicolo conoscitivo della nostra condizione umana, grazie a quel movimento di concentrazione sull’essenziale che essa è in grado di compiere, riportando l’uomo a sé.

L’arte, detto in altri termini, è come quest’occhio gigante, che, penetrando a fondo le questioni decisive che caratterizzano la nostra esistenza, scava nel profondo e getta luce su quella meravigliosa ricchezza e su quella straordinarietà complessità che noi siamo.

Essa è, in definitiva, luce della e per la mente, respiro dell’anima: senza di essa saremmo come incompiuti e persi, senza guida in quel viaggio tortuoso e drammatico che è la nostra stessa esistenza.

Virgilio Guidi, nato a Roma nel 1891 e morto a Venezia nel 1984, è considerato uno dei massimi esponenti della pittura del Novecento italiano e uno dei più importanti rappresentanti della Scuola di Venezia.

La pittura di Guidi si forma originariamente, sotto la guida di Giulio Aristide Sartorio, all’Accademia di Belle Arti di Roma e subisce poi un certo influsso di Spadini, per maturare, infine, in piena autonomia, a partire dalle riflessioni sull’opera di Piero della Francesca e di Giotto.

Nel corso della sua carriera l’artista ha esplorato diverse correnti artistiche, tra cui il Futurismo e il Cubismo, ma è principalmente associato al movimento della pittura informale o astratto-surrealismo.

Le sue opere spaziano tra paesaggi, nature morte, ritratti e figure umane, caratterizzate da una forte carica emotiva e da un'intensa ricerca cromatica.

Guidi si è distinto per la sua tecnica pittorica virtuosistica, che spazia dall'uso delicato e sfumato del colore alle pennellate vigorose e gestuale; la sigla che lo colloca ai vertici della pittura italiana dello scorso secolo è, in particolare, la sua personale interpretazione del fenomeno luminoso nello spazio.

Quello che è stato definito il poeta della luce, ha seguito percorsi di ricerca complessi, ma coerenti, all'interno di una figurazione che giunge a volte al limite dell’astrazione: luce, forma e colore sono - e resteranno - un trinomio inscindibile, i soli strumenti idonei a esprimere un’idea della pittura che è sostanzialmente necessità di una nitida misura mentale.

Vincenzo Ferrari, Pensare, Comunicare, Documentare, Rappresentare, Agire, (installazione di 5 opere, in pezzo unico), anni ’70, tecnica mista, 100 x 100 cm (singola opera)
Immagine
Vincenzo Ferrari, Pensare, Comunicare, Documentare, Rappresentare, Agire, (installazione di 5 opere, in pezzo unico), anni ’70, tecnica mista, 100 x 100 cm (singola opera)

Se è vero, come è stato detto fino ad ora, che l’arte ci restituisce a noi stessi, riportandoci all’essenziale, rigenerandoci conseguentemente a vita nuova nel momento in cui ci lasciamo inquietare e trasformare da essa, quest’ultima corrisponde allora, nel suo farsi, a quei cinque verbi che, magistralmente, porta in scena nei suoi quadri Vincenzo Ferrari. Essi sono: pensare, documentare, rappresentare, ma anche comunicare e, infine, agire.

L’artista, nato a Cremona nel 1941 e morto a Sondalo nel 2012, dopo le prime esperienze pittoriche, nel 1967 inizia la propria ricerca riferibile all’arte concettuale e dal 1971 insegna all’Accademia di Brera.

Fondamentale è per lui, a partire dal 1969, l’amicizia ed il sodalizio professionale con Vincenzo Agnetti, da cui mutua il proprio iniziale interesse per i lavori concettuali.

Oltre a svolgere un’intensa attività espositiva, partecipa con Ugo Carrega alla stesura del Manifesto della Nuova Scrittura (1975) e del Piccolo Manifesto dell’Artescrittura (1982), presentati presso il Collegio Universitario Fratelli Cairoli di Pavia.

Dalla metà degli anni ’70 inizia così un’intensa stagione di collaborazione con Carrega stesso, con Mussio, con Accame e con Oberto: l’artista, pur utilizzando la parola scritta, inserita come parte integrante delle sue opere pittoriche, recupera fortemente la dimensione del colore.

Dal 1976 avvia inoltre ripetute esperienze di lavoro con Alik Cavaliere, impostate sui temi di una classicità visionaria e della nostalgia della bellezza, lavori presentati successivamente in esposizioni e allestimenti scenici.

Renato Guttuso, Senza titolo (alias il Diavolo), 1964, china su carta riportata su tela, 35 x 25 cm
Immagine
Renato Guttuso, Senza titolo (alias il Diavolo), 1964, china su carta riportata su tela, 35 x 25 cm

Ma che cosa accade a chi, indifferente alla potenza terapeutica e trasformante dell’arte, sceglie di rinunciare completamente a questo ‘spazio’, che è occasione davvero unica di comprensione e, a seguire, anche di possibile rigenerazione dell’umano?

L’esito inevitabile, forse, è la dis-umanizzazione, ovvero l’incapacità di abitare pienamente, e pertanto felicemente, la nostra condizione umana.

Un’esistenza siffatta sarebbe allora letteralmente bestiale o, perfino, demoniaca, cioè scentrata e collocata al di fuori di quel Vero e di quel Bene cui, grazie al Bello, possiamo più facilmente accedere mediante l’esperienza estetica.

In questo senso potremmo allora anche dire che l’arte davvero ‘salva’: essa ci consente di potere diventare davvero noi stessi, consapevolmente, secondo strade che ci conducono ad un’esistenza piena.

Renato Guttuso, nato a Bagheria, vicino a Palermo, nel 1911 e morto a Roma nel 1987, prova a delineare quei tratti bestiali cui abbiamo fatto cenno nelle precedenti righe nell’opera che avete dinanzi, Senza titolo (alias il Diavolo).

L’artista si dedica sin dall'età giovanile alla pittura. Nel 1931 espone alla I Quadriennale di Roma e, l'anno successivo, in una collettiva alla Galleria del Milione di Milano.

Stabilitosi definitivamente a Roma nel 1933, stringe rapporti con i pittori della cosiddetta Scuola Romana, ovvero Pirandello, Cagli e Ziveri, che influenzano la sua pittura in senso tonale.

Tra il 1935 ed il 1937 frequenta i giovani artisti milanesi che daranno vita al Movimento di Corrente, e cioè Treccani, Manzù, Birolli, Sassu e Persico, Pagano, Banfi, Fontana, Raffaele De Grada, Joppolo.

Nel 1935 partecipa alla II Quadriennale romana e nel 1936 alla Biennale di Venezia. Nel 1938 realizza il suo primo dipinto epico-popolare, La fuga dall'Etna, e tiene una personale alla Galleria della Cometa.

In questa fase della sua produzione Guttuso si lascia sedurre dalle scattanti figurazioni del Picasso post-cubista, ma al contempo accentua la sua attenzione - spesso polemica - verso le questioni sociali: proprio questa sua inclinazione svolgerà un ruolo di traino nell'evoluzione in senso realista della pittura italiana.

Nel 1947 aderisce al Fronte Nuovo delle Arti, protagonista della pittura neorealista volta della polemica contro le tendenze formaliste di molta arte astratta.

Il pittore insegue un'esecuzione prettamente figurativa a cui fanno da corposo contraltare contenutistico temi ancorati al mondo contadino, rurale, popolare: temi sociali o soggetti dichiaratamente politici.

Nel 1985 viene consacrato pittore di fama internazionale dalle mostre di Palazzo Reale a Milano e di Palazzo Comitini a Palermo.

La sua arte, legata all'espressionismo, fu caratterizzata anche dal forte impegno sociale, che lo ha portato all'esperienza politica come senatore del Partito Comunista Italiano.

Amedeo Giovanni Conte, Verwandlung/Metamorfosi, eidogramma, 1992, stampa su carta, 146.7 x 71.5
Immagine
Amedeo Giovanni Conte, Verwandlung/Metamorfosi, eidogramma, 1992, stampa su carta, 146.7 x 71.5

L’ultima opera che vi presentiamo è Verwandlung/Metamorfosi di Amedeo Giovannei Conte, ovvero un eidogramma del celebre filosofo del diritto pavese.

Ma che cos’è un eidogramma?

Si tratta di un’opera artistica, inventata da Amedeo Giovanni Conte, nella quale la disposizione spaziale delle parole rappresenta figurativamente, sensibilmente, la medesima idea che le parole esprimono linguisticamente.

E che cosa c’entra questo ideogramma con il presente percorso espositivo?

Potremmo dire tutto: esso, di fatto, è infatti una perfetta sintesi di quanto siamo andati dicendo fino ad ora.

Metamorfosi è causa, processo ed effetto della cura.

Nella relazione di cura, attraverso le parole dell’altro, mutiamo il nostro sguardo e il mutamento dello sguardo trasforma l’esistenza.

Inoltre, nella relazione di cura le parole dell’altro possono avere un effetto performativo e, diventate azioni, possono elevare la nostra reale consapevolezza dell’infinitamente piccolo e infinitamente grande.

Tutto questo è proprio l’arte, come potete costatare dall’opera che avete dinanzi, ad insegnarcelo, e quindi si rafforza ulteriormente l’idea che non c’è più alta forma della cura della cultura, in particolare modo di quella sua specifica espressione che è l’estetica.

Conclusione

Il viaggio nel pensiero e del pensiero attraverso l’arte, per esplorare le forme di rigenerazione della nostra umanità ferita, che è La cura dell’uomo termina qui.

Vi ringraziamo di aver scelto di visitare questa mostra.